I 20 PASSI
Luca Spadaro
Narra la leggenda che uno spettatore commosso abbia chiesto a un attore giapponese “Come hai fatto a creare una scena così emozionante?” L’attore rispose: “Avevo venti passi da fare, contavo a ogni passo: uno, due, tre,…”
La leggenda dell’attore giapponese sta a significare che non è necessario “sentire veramente” per commuovere il pubblico. Ma in realtà sposta il problema: cosa faceva veramente l’attore giapponese in quella scena, dal momento che sappiamo che non basta contare fino a venti per attivare un’emozione in chi ci guarda?
In Cafè Muller di Pina Bausch, un uomo sposta delle sedie prima che una donna vada a sbatterci. La velocità della donna genera una specie di “emozione fisica specifica” nell’uomo, a partire da un compito preciso. La donna si muove velocemente ed obbliga l’uomo a una reazione immediata. Reagire è la prima forma di stato fisico-emotivo.
Successivamente la donna si muove piano e l’uomo sposta le sedie lentamente, cercando forse di non fare rumore: ecco che si attiva un altro stato fisico-emotivo.
Se la capacità propriocettiva dell’attore è sufficientemente alta queste reazioni coinvolgono corpo e cervello e portano a un’emozione scenica utilizzabile.
Facciamo un passo indietro: cosa ci accade quando viviamo un’emozione genuina, lontani dal palcoscenico?
Una volta ho visto un gruppo di adolescenti salire su un palco per ritirare il diploma di maturità: il loro corpo sembrava muoversi come se temessero di subire un’aggressione dalla platea. Di certo venivano attivati muscoli (e sequenze ritmiche) non necessari per il compito oggettivo che doveva essere realizzato (salire la scaletta del palco, recuperare un diploma, stringere una mano, scendere la scaletta).
Quando viviamo un’emozione facciamo “più del necessario”, il corpo si attiva oltre alle reali necessità imposte dalla soluzione del compito. Questa attivazione-extra ha a che fare con l’emozione, ne è, per così dire, il sintomo.
I “sintomi” di un’emozione possono essere recuperati coscientemente (grazie alla capacità di osservazione e auto-osservazione, con l’allenamento fisico e l’allenamento alla propriocezione). Non solo: mi sembra che, se recuperati, questi sintomi ne attivano degli altri, non volontari.
Attivare i sintomi non volontari è quello che a teatro si definisce comunemente “sentire un’emozione”.
Se “sento”, se lavorando su alcuni sintomi volontari ne attivo altri involontari, riesco ad agire sulle sfumature della recitazione, risolvo problemi complessi, vedo “dall’interno” quello che accade e, paradossalmente, ho il controllo del mio lavoro proprio perché attivo volontariamente delle dinamiche involontarie.
In questa accezione il verbo “sentire” perde la sua fastidiosa caratteristica di fumosa soggettività: “sentire” significa riconoscere un processo fisico.
A questo punto diventa necessario farsi aiutare dalle teorie e dalle misurazioni scientifiche per capire cosa stiamo attivando in chi fa e in chi guarda.